uno scambio di idee sulla lingua latina

Hai perfettamente ragione Antonio.   

E’ il disastro della specie umana italica che si sta consumando con la disattenzione verso una tematica che è molto più complessa e che non è la cultura di un idioma, di una lingua, ma di un mondo di conoscenza che è il sapere fondamentale dell’individuo che costituisce il prius rispetto ai saperi specifici che forse meglio abilitano ad attività operative ed applicative.  

Giorni fa sono stato per ben tre mattinate inchiodato online in un convegno che si è tenuto Maratea a cura della Fondazione Nitti e dell’Associaziome Merita di cui vi allego il link che aveva come titolo ” Umanesimo digitale”.

E’ troppo lungo il discorso e lo spazio della Chat non aiuta.

Ti posso solo dire che ho dinanzi i tre libri di Gardini, Elogio del Latino, Viva il Latino Storia e Bellezza di una lingua inutile, Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo, non perchè avessi bisogno attraverso quelle letture di riscoprire il Latino ma di capire quali sono le idiozie contrarie che alimentano l’ostracismo.

Ha ragione Mauro quando dice che dobbiamo adoperarci per riprendere a parlarne.

Non c’è contraddizione alcuna nè antiteticità tra i saperi classici ed il mondo della innovazione e se avete la pazienza di ascoltare alcune delle prolusioni dell’evento citato di cui allego il link, ad esempio quello del Direttore dell’accademia dei Lincei, ci si rende conto quanto sia controproducente gestire questo argomento come conflitto di saperi, di discipline per un mondo futuro.

Non sto a recuperare dati ed informazioni che dicono quanto sia apprezzato e valorizzato all’estero il Latino e quanto questa lingua accomuni i popoli più di quanto non si sappia.

E’ un tema sul quale da anni provo ad esprimere il mio pensiero, di chi viene dal mondo del liceo classico, ha fatto uno studio universitario nel solco delle materie giuridiche con lo studio del diritto romano, a fondamento della nostra civiltà giuridica, e poi per caso si è imbattuto in materie dalla finanza all’It, alle tecnologie tutte che nessuna familiarità avevano apparentemente tra di loro. e con il la cultura umanistica.

Ma forse qualche buon risultato pure conseguito per l’azienda stava proprio nella capacità di far convivere le due anime.

Tra l’altro ieri sono stato presente in un Webinar dove non si faceva altro che inneggiare alle materie STEM ; la impossibilità di aprire un dialogo se non attraverso Chat scritta ha generato in me un dissapore che non ho ancora  smaltito.

Ma ormai tutti parlano non leggono, non studiano e forse non hanno neppure la capacità di saper leggere e non sanno cosa leggere.

Invito Mauro nel nostro Club ( già direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli ) a farsi capofila di una iniziativa costruttiva sul tema proprio in una fase in cui lo spazio che viene dedicato ai saperi tecnici è debordante perchè asseconda una moda che sebbene utilitaristica ai fini occupazionali e del lavoro non tiene conto della radice del nostro paese e del patrimonio sul quale possiamo e dobbiamo contare

Devo aggiungere che il dibattito ieri a Napoli sulla destinazione di Palazzo Fuga a sede della Biblioteca Nazionale e della Biblioteca del Prof Emerito Marotta , dell’Istituto Italiano degli Studi Filosofici, su cui tutti o quasi hanno concordato sarebbe la più grossa smentita verso un approccio di cui pure non si discute la utilità, per il profilo di spendita di know how che meglio risulta idoneo per le aziende manufatturiere e di servizio, ma che sta avendo come contraltare la negazione “dell’inutile”, a dispetto dell’utile.  

Ciò che non si può condividere  è proprio la incapacità a saper coniugare i nuovi saperi con il nostro patrimonio dei saperi “ classici” si fa per dire che sono la base umanistica per aprire la conoscenza verso dimensioni non solo operative ma di intelligenza dell’animo umano e dei meccanismi relazionali che sono alla base di tutte le organizzazioni, a capo di molte delle quali, ed anche grandi, si ritrovano manager con un patrimonio conoscitivo tutt’altro che tecnico.

“ dal libro di Nuccio Ordine sull’Utilità dell’inutile. Nell’universo dell’utilitarismo infatti un martello vale più di una sinfonia , un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro.

Perchè è facile capire l’efficacia di una utensile mentre è sempre più difficile comprendere a cosa possa servire la musica, la letteratura e l’arte.

https://www.associazionemerita.it/notizie/video-sudenord-villa-nitti

A supporto trascrivo qui di seguito l’articolo del 2016 su Repubblica pubblicato da Salvatore Settis.

Salviamo il latino, la lingua più parlata del mondo

di SALVATORE SETTIS

L’appello: “Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture”

10 AGOSTO 2016

La lingua più parlata del mondo?

È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.



Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese


(terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni
) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.

Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino?

Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba».

La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia.

E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva».

Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.



L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso (Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti).

Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».



Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton.

Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .



Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale (come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo.

Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.
Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture.

Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea.

Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?